giovedì 3 marzo 2011

Il rovescio del diritto.

Conflitti, identità e diversità nell’era della globalizzazione

1. Antropologia - storia - sapere
«C’era una volta un gigante, che tutti chiamavano il Re della strada. Aveva gambe più lunghe dell’albero più alto della foresta e la testa più grande delle grandi rocce […]. Quando beveva prosciugava i fiumi. Dove faceva pipì si formava una fogna. Il re della strada aveva una pancia e-norme, per quanto mangiasse non era mai soddisfatto. Chiunque volesse viaggiare su quella strada doveva offrirgli un sacrificio perché altrimenti lui gli impediva di passare. Iniziò a mangiare tutto ciò che vedeva. Alcuni cercarono di parlargli e formarono una delegazione, ma mangiò anche la delegazione. Divorò alberi, arbusti, pietre, sabbia. E poi accadde la cosa più strana. Incominciò a mangiare se stesso…»(1)


Siamo nell’era della globalizzazione: la tecnologia annulla distanze spaziali e temporali, gli spostamenti si velocizzano e si massificano, le informazioni corrono da un evento all’altro aprendoci le porte della contemporaneità degli avvenimenti, le città si trasformano in giganti metropolitani, senza più centri né periferie. Si vive tra uffici, aeroporti, distributori automatici, centri commerciali e si muore in clinica: tutti luoghi senza tempo e senza storia, senza identità, senza capacità evocativa, senza forza simbolica. Roma, Parigi, New York, Tokyo, Milano: città così lontane eppure così uguali, metropoli multietniche dove le diversità culturali costituiscono solo un elenco di curiosità da assaggiare o acquistare al centro commerciale, e le identità si riducono a passaporti numerati e timbri, che divengono un privilegio per non essere esclusi.

Noi vaghiamo in questi labirinti, obliati della nostra storia, allucinati da una prorompente contemporaneità, distratti da mille informazioni, lontani da ogni sapere che dia un reale significato al nostro percorso.
Ciò che organizza il nuovo mondo globalizzato è il mercato. Praticato con fanatismo senza pari, il mercato non solo monopolizza ogni aspetto della vita sociale, dentro e fuori l’occidente, ma diventa anche la metafora culturale che organizza e conferisce senso alla nuova società. La politica stessa si fa mercato: le idee diventano prodotti, gli elettori delle democrazie diventano consumatori, i programmi diventano strategie di marketing, la loro attuazione una campagna pubblicitaria, gli uomini della politica degli showman. E così come nel modo della televisione, c’è chi si può permettere grandi professionisti e quelli a cui toccano i venditori di padelle.

«La strada era la peggiore delle allucinazioni, portava verso casa, poi di nuovo lontana, infinita, troppo piena di segni e senza direzione. La strada divenne il mio tormento, il mio pellegrinaggio senza meta, e mi ritrovai a camminare solo per il gusto di sapere dove portassero tutte quelle vie, dove andassero a finire.»(2)


Politiche neoliberiste e strategie post coloniali si espandono e conquistano l’esotico, il diverso, il lontano, fino a rendere il mondo tragicamente uguale a sé stesso. L’imperativo dominante è il richiamo all’omologazione, la menzogna che sia l’unica vera garanzia di uguaglianza e libertà.

«In principio era il fiume. Il fiume diventò una strada e la strada estese le sue ramificazioni sul mondo. E giacché un tempo la strada era stata un fiume, la sua fame era insaziabile.»(3)


Paradossalmente invece sono proprio i principi di disuguaglianza che vengono omologati: accesso ineguale alle risorse, disastri ambientali, squilibri sociali.

Molteplici le forme di sfruttamento: il capitalismo globalizzato si nutre della povertà dei sud del mondo. E, se necessario, crea nuovi sud anche dietro gli angoli della confortante vita borghese.

I flussi di capitali e la concorrenza come modello ideale e virtuoso di rapporto sociale creano contraddizioni, non solo in seno alla nostra società, dove è sempre più in aumento il tasso di disoccupazione, la concentrazione di ricchezza e lo smantellamento dello stato sociale, ma soprattutto nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, che rimangono esclusi dai giochi di potere perché la loro funzione è quella di dispensa (o immondezzaio) dell’occidente.

E la risposta del capitalismo globale a questi squilibri è l’imposizione dei propri modelli di sviluppo, al di là di ogni rispetto per il diritto alla diversità e alla autodeterminazione dei popoli, assoggettando all’unica legge dell’economia neoliberista ogni altra economia, cultura, credenza religiosa o comportamento sociale esistente.

Mai come oggi assistiamo ad un’inarrestabile trasformazione delle identità culturali, che perso ogni legame con le proprie radici, o si assoggettano alla cultura dominante votandosi all’autodistruzione o ad essa si oppongono riappropriandosi, spesso in maniera del tutto innovativa, di un passato storiografico e mitico teso a rafforzare la loro appartenenza etnica.

La globalizzazione si scontra con la localizzazione, la transnazionalità con la territorializzazione, le identità si combattono per l’accesso alle risorse materiali e simboliche, creando così i presupposti dell’esplodere delle guerre interetniche: quella famosa violenza che viene spacciata per endemica e quasi connaturata alle culture.

La verità è ben altra. Facciamo il caso del Ruanda e del Burundi. Tutti ricordiamo il sanguinoso conflitto fra Hutu e Tutsi, conflitto che per altro non si è sopito, ma è semplicemente divenuto fuori moda per i media mondiali. La giustificazione della ferocia dello scontro fra le due etnie che è stata data dagli improvvisati commentatori ha sempre tirato in ballo il “tipico tribalismo dei popoli africani”. Africa uguale tribù, tribù uguale scontri fra tribù. Concetti semplici, comodi… e falsi. Lo sguardo antropologico e storico penetra la menzogna e giunge alla conoscenza. Qualsiasi distinzione fra Hutu e Tutsi su base etnica e fisica è fuorviante. Tutsi e Hutu parlano la stessa lingua, condividono lo stesso territorio da secoli e, fino all’arrivo dei colonizzatori europei, avevano le medesime istituzioni politiche. Quando giunsero in Africa centrale, tedeschi e belgi trovarono una società complessa, articolata e centralizzata, composta da due metà sociali determinate per attività lavorative e caratterizzate dalla presenza di gruppi familiari legati a loro volta al possesso di aree di terreno coltivabile: niente etnie, dunque. Cosa accadde? Accadde che le forze coloniali rivestirono questa ripartizione del lavoro di un valore simbolico e politico, funzionale ai loro propositi di dominio, nel senso di una classificazione razziale gerarchica. Dovendo scegliere un interlocutore politico privilegiato per incunearsi nella cultura tradizionale, i colonizzatori scelsero la minoranza Tutsi, che era quella che esercitava la funzione guerriera e celebrava le liturgie del potere. Decisero che i Tutsi erano in realtà un popolo di origine camitica, analogo agli etiopi, africani dalla lunga tradizione cristiana. La metà sociale Hutu, che tradizionalmente esercitava una vitale funzione di controllo del potere e di pratica delle liturgie religiose, venne privata delle sue prerogative sociali e rituali e venne esclusa dal diritto all’istruzione e dalla politica. I Tutsi a quel punto, legittimati dal potere coloniale, rinunciarono alla religiosità tradizionale, si cristianizzarono e fecero propria l’ideologia razzista dei colonizzatori, che a quel punto per riflesso negativo, venne accettata anche dagli oppressi Hutu. Li dove c’era un popolo gli invasori europei, per la loro sete di dominio, avevano inventato due etnie. Che da allora non avrebbero mai più avuto pace. Nel 1959, verso il tramonto del dominio coloniale, i Belgi, per mantenere comunque la loro posizione di potere, favorirono un rovesciamento sociale. Essendo la democrazia il nuovo modello organizzativo del nascente stato indipendente ruandese, ed essendo gli Hutu la maggioranza del paese, la guida politica venne tolta ai Tutsi ad affidata ai subalterni di un tempo. Ciò colmò la misura. Gli Hutu volsero a loro vantaggio l’ipotesi razzista che aveva sconvolto l’assetto tradizionale sociale: visto che i dominatori Tutsi erano etnicamente diversi dagli Hutu, allora la popolazione “autoctona” Hutu aveva il diritto a rivendicare la sua terra per sé, a qualsiasi costo. Le porte dell’inferno si erano spalancate, grazie ai civilizzatori europei.

Cancellare la storia, bruciare i ricordi e le memorie degli altri per sostituirli con i propri, da sempre è stato uno dei metodi più usato dai più forti per ammansire i più deboli.
Ma se è vero che la natura costruita della memoria si lega sempre a delle strategie egemoniche, accordandosi ai pensieri dominanti e cancellando il passato scomodo, è pur vero che esistono dei limiti a questo processo, dati innanzi tutto dal fatto che gli eventi storici sono dotati di una effettività che non può mai essere del tutto cancellata. Un’irriducibilità della storia, come categoria interpretativa ed esperitiva dell’uomo, che non ci sta a scomparire, a piegarsi, a esiliarsi nell’oblio. Una storia, mille storie che sono le voci di tutti, degli ultimi, degli sconfitti, che oltre i loro corpi obliterati e stuprati lasciano una testimonianza estrema della loro esistenza che è lì, per chi vuole ascoltare, leggere, capire.
Una molteplicità di memorie storiche all’interno dello stesso gruppo territoriale che spesso si rifanno proprio a quel passato che il potere cerca di cancellare e che a loro volta recuperano e reinterpretano per creare nuclei di resistenza e combattere quell’oblio a cui le grandi potenze sembrano voler condannare le culture locali.
Le grandi dittature, a partire dal nazifascismo si legittimano proprio con l’oblio: i libri si bruciano non si leggono, propaganda non informazione, commemorazione non ricordo.

In un mondo come quello di oggi in cui i processi di globalizzazione sostituiscono la cronaca alla storia e l’informazione al sapere, la memoria di tutti i popoli rischia di annegare nel nulla, per dissolversi in una contemporaneità sempre più frantumata e priva di storia e quindi di capacità critica.
Cambia il modo di ricordare, cambia la rappresentazione dell’identità e cambia anche il modo di perpetrare la violenza, che da collettivo si fa capillare, non si scrive più solo sul corpo, ma entra nella quotidianità delle persone attraverso l’ideologia del controllo e della repressione, l’imposizione di modelli universali e di parametri etici per definire ciò che è bene e ciò che è male. Oggettivizzando il male, lo si trasporta dal piano delle intenzioni e della storia a quello della natura, che è data una volta per tutte.

Il “diverso” diviene il primo nemico della società globalizzata, vale a dire del potere.
Ad una cultura dei diritti si sovrappone prima, e si sostituisce poi una cultura del diritto unico di ridurre tutto ad una dialettica idiota ed acritica tra bene e male, giusto e sbagliato, lecito ed illecito, saziando in questo processo solo gli appetiti più bassi e depravati dell’umanità: quelli della coercizione, dell’imposizione, della censura, della sopraffazione e della violenza.
Alla “saggia ipocrisia” delle diplomazie nate dalle ceneri degli orrori postbellici nel ‘900, al mondo in equilibrio sui muri di cui ancora oggi si festeggia l’abbattimento, a tutto ciò il nuovo millennio sostituisce una nuova ideologia più semplice, più diretta, più efficace, più immediata: la guerra, totale, permanente e, tanto per stare tranquilli, preventiva.
Un occidente, che dallo jus romano, alla magna charta, agli statuti comunali, alle costituzioni moderne aveva scelto la via del diritto come pratica storica e metafora culturale dell’organizzazione sociale, all’alba del 2000 sterza bruscamente, e scopre che l’unico vero diritto che vale la pena di garantire con ogni mezzo è il diritto del più forte di sopraffare i diritti dei più deboli.


2. Diritto globale - globalizzare i diritti - etnodiritti
Ma, ovviamente, la questione è più complessa. Se tutto, infatti, si potesse ricondurre ad una semplice dialettica fra diritti e guerra non faremmo altro che replicare, seppur animati dalle migliori intenzioni, uno schema semplicistico e tutto sommato rassicurante fra bene e male. Il fatto è che lo stesso concetto di diritto, nella sua portata storica e culturale non è esente da diverse ambiguità.

Poniamoci dunque alcune semplici ma fondamentali domande.

Il diritto è uno o esistono più diritti?
Diversi popoli nella storia hanno elaborato sistemi di diritto molto diversi fra loro. La civiltà occidentale è erede del diritto romano e di sue alcune fondamentali acquisizioni concettuali, prima fra le quali quella di responsabilità individuale. Secondo questa concezione ciascuno è responsabile per sé ed esclusivamente delle azioni che compie.
Altre culture hanno sviluppato diverse forme di diritto. Nell’area mediorientale, ad esempio, il diritto tradizionale conosce un concetto di responsabilità esteso ai gruppi sociali: un qualsiasi membro di un gruppo sociale o familiare può essere ritenuto responsabile per le azioni e le infrazioni all’ordine di ciascun altro suo membro, e può essere quindi costretto a pagare per colpe che, nella nostra ottica del diritto individuale, non sono sue.
Altri elementi sono invece comuni fra i diritti delle diverse culture, come il diritto di reciprocità (o vendetta), di antica origine indoeuropea: “occhio per occhio, dente per dente” è una formulazione che trova analoghi nel diritto germanico, in quello celtico, in quello romano, oltre che in quello ebraico.
In alcune culture, antiche e moderne, all’esercizio del potere si accompagna l’esercizio del diritto di vita e morte. L’esempio classico è quello della pena capitale: il potere, nel nome della collettività che lo legittima, priva un membro della società del diritto alla vita, in pratica lo uccide. Questo diritto lacera l’occidente contemporaneo. Ad un occidente “ufficiale” civile, europeo che disconosce la pena di morte, fa eco un occidente su cui si preferisce di solito tacere, quello statunitense, che con la pena di morte celebra una sorta di sacrificio simbolico della sua classe sociale subalterna, del lato oscuro del sogno americano. Un solo occidente, due diversi diritti.

Se i diritti sono più d’uno, esiste un diritto che ne regoli i rapporti?
Il primo documento di diritto internazionale, se così si può dire, è antichissimo: risale al 3100 avanti Cristo. Si tratta di un accordo che venne stipulato fra due città/stato sumere. Fin dai suoi albori il diritto internazionale ha chiarito il suo campo di intervento principale: quello di regolare i modi della pace e della guerra, riconoscendo implicitamente il carattere di violenza e aggressione latente che soggiace ad ogni rapporto fra diversi.
Il divieto di aggredire un altro popolo senza motivo è anch’esso di antiche origini: fu sancito dallo jus gentium romano, che regolava i rapporti fra cittadini romani e stranieri. Se una tale conquista di civiltà è stata raggiunta già da due millenni viene da chiedersi come è possibile che sia stata poi puntualmente disattesa.
La questione fondamentale è che un diritto internazionale ha solo due vie per costituirsi e procedere: o come minimo comune denominatore, e quindi garantendo a tutti solo ciò che ciascun diritto garantiva comunque a ciascun popolo, oppure cercando di raccogliere tutti i diritti sotto la bandiera di una necessità di ordine superiore. Ma secondo quali principî, ed esercitando quali strumenti coercitivi? Non dimentichiamo infatti che il concetto di diritto è tutt’altro che virtuoso, poiché si fonda sulla capacità di essere imposto, e di punire, per via di forza.
Rendiamo più esplicita questa ultima questione. I famosi diritti universali, peraltro anch’essi regolarmente traditi e infangati, sono sanciti per via di quale modello culturale? La risposta è ovvia: quello egemone. Quello cioè che nella storia ha imposto la sua egemonia politica, economica, culturale e quindi anche giuridica sugli altri. Il diritto universale è comunque il diritto del più forte, e però viene concesso per liberalità anche ai più deboli. Sulla carta, ovviamente.
Questa strada ci conduce verso un’aporia: imporre il diritto di uno sui diritti di tutti è un’evidente abuso, ma se d’altro canto riconoscessimo tutti i diritti di tutti dovremmo riconoscere ad alcuni il diritto di uccidere e ad altri il diritto di non essere uccisi, ad alcuni il diritto di essere puniti per le proprie responsabilità e ad altri di essere puniti per responsabilità collettive, e via dicendo. C’è chi ha ipotizzato, sulla scorta di un estremo relativismo culturale, una soluzione ideale che vedrebbe mille diritti ognuno valido per il gruppo sociale che decide liberamente di adottarlo. Ma non è una soluzione poi così ideale. Da sempre le culture si incontrano, si scontrano, scambiano e si compenetrano portando con sé il segno della diversità ovunque la storia le conduca. In questo senso il mondo è globale fin dalla preistoria, e pensare una società di uguali ma estranei nella loro irriducibile diversità culturale non è solo ingenuo, è terrificante. Senza contare che l’uguaglianza, e qui il cerchio si chiude, è proprio sancita dalla parità di diritti. Se si godesse di diritti ineguali, foss’anche per rispetto della diversità culturale, a quale uguaglianza potremmo mai aspirare? È più importante adoperarsi per l’uguaglianza o rispettare la diversità? E se la diversità porta con sé forme di sopraffazione della diversità altrui? Esiste il diritto di imporsi sui diritti degli altri? L’occidente ha già risposto affermativamente a questa domanda, e da molto tempo. Ed è proprio questa la legittimazione profonda della globalizzazione.


3. Tortura - uomo - animale - ambiente
Nelle zone di confine del nuovo occidente globalizzato il modo in cui il potere scrive sui corpi individuali, sociali ed ambientali il suo diritto di imporsi con la forza, il linguaggio che impiega per esprimere il diritto coercitivo è quello della violenza, della sopraffazione, dell’umiliazione fisica e morale. La tortura.

Ufficialmente ogni pratica coercitiva riconducibile ad una qualsiasi forma di tortura, fisica o psicologica, è bandita dall’O.N.U. e dalla Convenzione Europea per i Diritti Umani. Entrambi questi organismi hanno in più occasioni ratificato questa scelta: l’O.N.U. nel 1984 con la Convenzione contro la Tortura e l’Europa nel 1987, con l’adozione della Convenzione Europea per la Prevenzione della Tortura. Queste dichiarazioni sono annualmente rinnovate e, a volte, si traducono anche in impegni concreti nei singoli stati nazionali, vale a dire in leggi che individuino giuridicamente e puniscano i reati di tortura.

Fa eccezione l’Italia, dove non solo una legislazione moderna ed efficiente in materia di tortura stenta a nascere, ma addirittura si fanno passi indietro, assecondando gli umori più neri e beceri di una politica che legittima ogni forma di repressione e criminalizza il dissenso sociale.

I dati forniti dalle organizzazioni umanitarie, Amnesty International in testa, sono agghiaccianti: non c’è bisogno di andare in chissà quale staterello fantoccio, agli ordini delle grandi potenze mondiali. Nella democratica Europa, così come negli Stati Uniti, forme di tortura, anche estreme, sono comunemente praticate. In maniera meno eclatante, sotterranea, coperte anche dall’incredulità generale che ci fa ritenere impossibile che nei nostri paesi civili simili orrori possano avere luogo. A volte, però, per una serie di circostanze, il velo di rimozione culturale, e di omertà istituzionale, si solleva.

Veniamo allora a conoscenza delle “mattanze” di manifestanti come al G7 di Napoli, delle sevizie cilene alla caserma di Bolzaneto, dei pestaggi e dei sequestri illegali nei centri dell’informazione libera ed indipendente in Occasione del G8 di Genova, quando un giovane manifestante di 23 anni, Carlo Giuliani, venne ucciso dalle forze dell’ordine in circostanze ancora non del tutto chiarite.

Ciò che invece è chiarissimo è che, se questa è la situazione in tempo di pace, laddove uno stato di guerra sospenda lo stato di diritto, il ricorso alla tortura sia facilitato, e culturalmente legittimato, per quella qualità di alterità assoluta, quasi di estraneità dal genere umano che, in tempo di guerra, si attribuisce al nemico. E poco importa se il nemico sia in realtà il cittadino di un paese occupato militarmente, giornalmente sottoposto a privazioni di ogni genere, tenuto costantemente sotto la minaccia delle armi, colpito dalla ferocia insensata dei bombardamenti.

È il nemico.

E tanto basta a farlo oggetto di umiliazioni e violenze che fanno dubitare persino dell’equilibrio mentale di che le pratica, salvo poi scoprire che l’intera catena di comando militare non solo tollera, ma anzi appoggia e promuove queste forme di umiliazione per fiaccare la capacità di resistenza di questo fantomatico nemico.

Ecco la via che conduce al carcere iracheno di Abu Ghraib, dove i molti prigionieri, in uno stato di detenzione al di fuori di ogni diritto, come per i “combattenti nemici” di Guantanamo, sono stati, e forse sono ancora, sottoposti a sevizie indescrivibili, volte a colpirli non solo nella fisicità dei corpi ma anche nella profondità della psiche e delle determinazioni culturali.
Musulmani costretti ad ingerire carne di maiale o sterco dai loro carcerieri, a giacere accanto a pezzi di carne putrefatta, a denudarsi e ad avere contatti con parti intime del corpo, in una cultura la cui sfera sessuale è molto delicata. E inoltre il “solito” repertorio di pestaggi, privazione del sonno, sevizia mediante shock elettrico, urticazione e via dicendo.

Ma questa è solo metà dell’orrore.

Per le donne, in tempo, di guerra si apre infatti un capitolo infernale. Durante i periodi bellici le donne vengono spesso rese oggetto di una contesa dai profondi significati culturali fra le parti in causa. In quanto potenziali madri il loro valore simbolico è grande. E lo stupro è l’abominevole cuneo che si propone di scardinare l’assunto per il quale la donna del nemico partorisce i figli del nemico. Lo stupro pianta il seme dell’avversario non solo nel corpo fisico del nemico, ma anche in quello sociale, e menoma la comunità nella capacità stessa di riprodursi. In pochi casi come in questo la metafora discorsiva che stabilisce un’analogia fra i corpi umani e quelli sociali coglie nel segno. E questo fenomeno subisce un ulteriore giro di vite qualora lo scontro si tinga di presunte motivazioni etniche. Il tutto in un contesto nel quale il corpo della donna è esclusiva proprietà di una società maschile, ed il diritto alla differenza di genere completamente ignorato.
Ma la guerra non risparmia i diritti di nessuno dei viventi. Dalla fase di preparazione a quella di attuazione, le vittime silenziose delle guerre in tutto il mondo sono gli animali. Per più di un milione di animali ogni anno, la terza guerra mondiale è già cominciata. E non ha mai fine.

Durante la guerra contro l’Afghanistan, i telegiornali mostrarono la spaventosa registrazione dell’agonia di alcuni cani nei presunti esperimenti militari di Al Qaeda. Il filmato mostrava un cane chiuso in una stanza in cui veniva liberato del gas. Ma questi crudeli esperimenti non sono una novità, né sono limitati all’Afghanistan.

A Tel Aviv, a Teheran, in Texas, cani ed altri animali vengono avvelenati e torturati in esperimenti di guerra chimica, biologica e convenzionale.

Un articolo pubblicato il 17 Marzo 2000 su Ha’aretz, il quotidiano più influente di Israele, riporta che gli esperimenti sugli animali portati avanti dalle Forze della Difesa israeliane sono così orribili che i soldati costretti a condurli hanno poi avuto bisogno di sostegno psicologico.

La storia dei crudeli esperimenti su animali condotti dall’esercito statunitense è lunga.
Ogni anno, almeno 320.000 fra primati, cani, maiali, capre, pecore, conigli, gatti e altri animali vengono feriti ed uccisi dal Dipartimento della Difesa degli U.S.A.. Poiché questa stima non include gli esperimenti commissionati ai laboratori privati e neanche le tante pecore, capre e maiali che vengono colpiti negli studi sulle ferite da arma da fuoco, il numero totale delle vittime ogni anno è in realtà molto più alto.

I test militari sono classificati top secret ed è quindi molto difficile ottenere informazioni al riguardo, e comunque si deve sottolineare che tali esperimenti sono dolorosi, costosi e soprattutto inutili, perché la maggior parte degli effetti che studiano sono in realtà già stati osservati sugli esseri umani (non dimentichiamo che l’umanità si fa guerra da millenni) o perché i risultati non possono essere applicati all’uomo.

All’Istituto di Ricerca di Radiobiologia delle forze armate nel Maryland 17 cani beagle vennero esposti ad irradiazione totale, studiati fino a sette giorni e poi uccisi. Lo sperimentatore concluse che le radiazioni danneggiano la cistifellea.
Negli USA, presso la base dell’aeronautica militare Brooks in Texas, c’è un simulatore di volo B-52 chiamato Primate Equilibrium Platform. Esso consiste in una piattaforma che oscilla e ruota simulando il movimento di un aereo. Delle scimmie vengono legate con cinghie sulla cima della piattaforma. Davanti a loro c’è una barra di controllo che può essere usata per far sì che la superficie ritorni in posizione piana. Le scimmie vengono addestrate ad usare la barra per tenere la piattaforma in posizione orizzontale. Durante questo condizionamento ricevono migliaia di shock elettrici punitivi finché non imparano ad usare la barra. Questa sofferenza dura giorni. E poi arriva l’orrore dell’esperimento vero e proprio. Ai primati vengono somministrate dosi letali di sostanze velenose, gas e radiazioni. La piattaforma continua ad oscillare e le scimmie devono usare la barra per tenerla in piano tra grandi sofferenze, nausea e vomito causati dalle sostanze tossiche ricevute. Se la loro prestazione non è buona, ricevono ulteriori shock e così via, fino alla morte. L’esperimento serve a scoprire se gli aviatori possono fronteggiare i dannosi sintomi di un volo tra esplosioni radioattive e nuvole di gas tossico e resistere le dieci ore necessarie per bombardare un’immaginaria Mosca, un’immaginaria Cuba, un’immaginaria Pyongyang, il “nemico”, insomma.

Ciò che poi viene inflitto ai delfini e ad altri cetacei ai fini del loro impiego in situazioni belliche è qualcosa la cui crudeltà rasenta l’indicibile. Si parla di mutilazioni, di inimmaginabili punizioni gratuite e di abominevoli crudeltà per violarne l’etologia e scatenarne quell’aggressività mortifera insensata, che è prerogativa esclusiva dell’uomo in guerra.

Gli animali non fanno guerre, ma sono costretti a soffrire pene inenarrabili per colpa dei conflitti degli uomini. Una sofferenza silenziosa, che non fa notizia o, peggio ancora, è giustificata per motivi di sicurezza e necessità di difesa. Ma dietro queste parole si nasconde sempre lo spettro osceno della guerra.

E ancor meno degli animali fa notizia l’ambiente. Bombardamenti, uranio impoverito, manovre del genio militare per gli acquartieramenti: tutto ciò porta ad una sistematica e gravissima devastazione degli ambienti naturali, letteralmente sventrati, genera catastrofi ecologiche mille volte più gravi di un qualsiasi incendio estivo (che sappiamo avere conseguenze nefaste per gli ecosistemi). Di tutto ciò, ovviamente non si parla mai.

Ma d’altronde, se in nome della guerra si può uccidere, torturare, bombardare ospedali, fabbriche e scuole, infliggere atroci sevizie ad animali, a chi mai può importare della salute degli ecosistemi e del loro diritto naturale di esistere e perpetuarsi?


4. Sapere - consenso - informazione - menzogna
Ma anche a chi non partecipa direttamente al conflitto, cioè alle popolazioni delle democrazie occidentali, lo stato di guerra permanente nega costantemente una serie di diritti fondamentali.
Innanzitutto il diritto all’informazione: i mezzi di comunicazione di massa, asserviti al potere, non producono informazione per i cittadini, ma contribuiscono a costruire quella menzogna globale necessaria per ottenere il consenso dell’opinione pubblica, indispensabile nelle democrazie.

Facciamo degli esempi.

Il 23 luglio 2003, il New York Times ed il Washington Post diedero importanza da prima pagina al ritorno a casa, artatamente manipolato dal governo, della ventenne soldatessa Jessica Lynch, ferita in un incidente d'auto durante le prime fasi dell'invasione dell’Iraq e fatta prigioniera. La versione dei fatti fu che Jessica Lynch aveva combattuto coraggiosamente contro un’orda di assalitori iracheni, che era stata poi catturata, torturata, forse anche stuprata, ed infine liberata da una task force di marines. La spettacolare liberazione era stata filmata con telecamere munite di visori notturni da un regista hollywoodiano, che casualmente passava da quelle parti con la sua troupe e l’equipaggiamento al completo, in quel tripudio di fuochi di copertura, razzi luminosi e grida concitate caratteristico della cinematografia avventurosa americana.

I media di tutto il mondo si gettarono sulla storia a capofitto. In meno di tre giorni tutti potevano sapere vita, morte e miracoli della piccola, coraggiosa soldatessa Jessica. Molti la definirono un’eroina.

Poi uscì fuori la verità, grazie alle ripicche e alle antipatie fra le forze “alleate”.

Gli inglesi di stanza in Iraq resero noto il reale svolgimento dei fatti. La soldatessa Lynch era incappata con la sua jeep in una zona minata, probabilmente dagli stessi americani. Era stata poi raccolta in gravi condizioni da civili iracheni che l’avevano condotta d’urgenza in un ospedale. Era stata curata, e a quel punto i medici che le avevano salvato la vita, piuttosto che consegnarla all’esercito iracheno decisero di riaccompagnarla dagli americani, con grande rischio. Ma erano stati accolti da una raffica di fuoco, e per pura fortuna la faccenda si era in qualche modo conclusa senza spargimento di sangue.
La piccola, coraggiosa Jessica, intanto, dopo un ricovero durato più di un anno in un centro medico militare, è sparita nel nulla. Non ha mai potuto essere né intervistata né tanto meno interrogata, perché - si disse all'epoca - soffriva di una provvidenziale amnesia.

L’informazione indipendente denunciò anche un altro eclatante caso di mistificazione. Si tratta della messa in scena di quello che doveva essere uno degli eventi dell'aggressione all'Iraq da far passare a futura memoria, l'evento che avrebbe dovuto dimostrare l'odio del popolo iracheno verso Saddam Hussein e l'esultanza verso le truppe straniere giunte nella piazza centrale di Baghdad. Qualcosa da paragonare all’abbattimento delle statue di Lenin, Stalin e Marx dopo il crollo dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche.

Stiamo parlando del celeberrimo episodio dell’abbattimento della statua di Saddam Hussein, che i giornalisti internazionali, senza alcuna vergogna, fecero passare come opera di una folla irachena euforica per essersi liberata del suo presidente. Le stesse immagini smentivano la prosopopea dei media: quattro gatti circondati da marines in una piazza semideserta.
In questo caso la conferma che si trattò di una messinscena giunse addirittura da uno studio interno alle Forze Armate Americane, riportato sul Los Angeles Times in un articolo firmato da David Zucchino e ripreso da pochi altri giornali nel mondo.
L’ordine venne da un colonnello dei marine, subito identificato ma sul quale non è possibile sapere nulla, in virtù del segreto militare. L’abbattimento della statua fu attuato nel quadro di una strategia psicologica volta a motivare truppe e opinione pubblica internazionale, producendo una memorabile immagine dell’invasione dell’Iraq. Ma l’operazione, nel suo svolgimento, ebbe anche dei momenti imbarazzanti.

Mentre il regime iracheno era al tramonto, il 9 aprile 2003 i marines convergevano su Piazza Firdos, nel centro di Baghdad, dove si trovava appunto l'enorme statua di Saddam Hussein. Un altoparlante invitò la popolazione a radunarsi nella piazza, mentre tre squadre di marines rastrellavano i dintorni alla ricerca di civili. Fu fatta giungere un’autogrù per l’abbattimento e l’operazione prese il via. Il primo incidente si ebbe quando un marine decise di mettere una bandiera U.S.A. sulla faccia del dittatore: i pochi iracheni giunti sul posto protestarono e dissero di toglierla immediatamente e così fu fatto. La statua allora venne legata all’autogrù e finalmente tirata giù in tutta fretta perché, nel frattempo, la situazione militare nei dintorni della piazza si era fatta insostenibile.

Per quanto riguarda invece l’invasione della Serbia e il “massacro umanitario” del popolo serbo la verità è ancora tutta da raccontare.

Se l’invasione dell’Iraq ha avuto almeno il “merito”, per così dire, di aver posto fine alla dittatura di Saddam Hussein, che sotto il suo governo ha fatto imprigionare, torturare e uccidere centinaia di dissidenti politici, l’affaire serbo è servito solo a tutelare gli interessi degli Stati Uniti nel Kosovo, che in quest’area dell’Europa orientale dispone, tra l’altro, di diversi campi di addestramento di forze militari “indipendenti”, vale a dire mercenari senza scrupoli, di cui si serve nelle sue operazioni di controinsurrezione nel mondo. Si tratta di vere e proprie basi militari americane in Europa, al di fuori di ogni controllo e giurisdizione.

Le bugie raccontate in Serbia dagli invasori sono state molte.

E tragiche.

Altro che “aiuti umanitari” e “missioni di pace”. Le forze “alleate” (italiani compresi, purtroppo) hanno bombardato fabbriche piene di operai, scuole durante le ore di lezione, televisioni con i giornalisti a lavoro, autobus di profughi che fuggivano verso lidi più sicuri.

«È un tragico errore. Siamo dispiaciuti.»: era questa la laconica formula di rito ripetuta puntualmente da un volitivo e rassicurante graduato americano alla stampa internazionale. Un errore che era giustificato dagli orrori (presunti) della pulizia etnica attuata da Slobodan Milosevic.

Tutti ricordiamo quando i media ci hanno tormentato con le famose decine di fosse comuni serbe, con le migliaia di cadaveri di kosovari vittime di Milosevic. Erano una montatura. Si trattava di un’unica fossa comune sulla cui origine non è ancora stata fatta luce, in territorio kosovaro. La fossa ospitava i cadaveri di popolazione civile sia serba che albanese della zona di confine. Le televisioni, opportunamente ammaestrate, avevano girato riprese dell’unico sito da più angolazioni, dando così l’impressione che si trattasse di più luoghi diversi.

Per i giornalisti olandesi che hanno avuto il coraggio di denunciare la mistificazione è cominciato un calvario professionale ed umano fatto di ritiri di permessi lavorativi, ostracismi, e vere e proprie minacce.

Per non parlare dello scandalo tutto italiano della Missione Arcobaleno, con la quale si sarebbero dovuti portare aiuti alle popolazioni civili (kosovare) colpite dalla guerra: la maggior parte dei containers con gli aiuti umanitari che dovevano giungere in Albania non hanno mai lasciato i nostri porti. Non si sa neanche che fine abbiano fatto tutti i soldi accumulati grazie alla lacrimevole campagna di raccolta fondi. Addirittura alcuni dei containers che sono giunti, così come almeno un furgone della Croce Rossa italiana, non contenevano cibo, né medicinali né vestiti, ma armi. Destinate a chi? Non lo sapremo mai. È già tanto che alla faccenda sia stato dedicato un esile trafiletto da un paio di giornali nazionali.

La verità dietro tutto ciò è il diritto negato alla gente di conoscere. Conoscere le menzogne degli stati occidentali, U.S.A. in testa, che risalgono alle campagne genocide contro i nativi d'America, al mito della frontiera, alla guerra ispano/americana, scoppiata dopo che la Spagna fu falsamente accusata di aver affondato una nave da guerra americana, il Maine, mentre l’odio antiispanico fu fomentato dal nascente colosso della stampa Hearst.

E che dire dei falsi documenti prodotti nel 1960 sul divario missilistico tra gli U.S.A. e l'Unione Sovietica, che servirono ad accelerare la corsa di tutto l’occidente agli ordigni nucleari e, quattro anni dopo, alla tragicamente nota messinscena dell’attacco vietnamita a due cacciatorpediniere americani nel Golfo di Tonkino? I media, pilotati dal governo, montarono una grande campagna stampa con la quale chiesero la rappresaglia, offrendo al presidente Johnson il pretesto che cercava per bombardare il Vietnam del nord.

Nei tardi anni '70, il silenzio dei mezzi di comunicazione consentì al “democratico“ Jimmy Carter (che ultimamente si sta riaffacciando sulla scena politica americana con velleità liberal) di armare l'Indonesia di Suharto mentre questa massacrava la popolazione di Timor Est e di finanziare, in chiave antisovietica, i mujahiddyn afgani, da cui sarebbero nati, di lì a poco, i Talebani.

Negli anni '80, la presunta minaccia agli Stati Uniti rappresentata dai movimenti popolari del Centro America, come i sandinisti del Nicaragua, permise al presidente americano Ronald Reagan di armare e sostenere gruppi di veri e propri macellai come i contras, le cui operazioni di controinsurrezione causarono circa 70.000 morti, oltre al convenzionale bagaglio di stupri, anche di bambini, e torture.

La scuola di addestramento militare di Fort Benning in Georgia, sforna annualmente strateghi militari che potrebbero dare lezioni, e probabilmente le hanno date, ad Osama bin Laden.


5. Costruire il nemico
Ma l’ideologia culturale della guerra globale e del nemico serve anche, in zone non militarizzate, a negare altri diritti fondamentali: quelli di libertà di movimento, di espressione e di dissenso.

Il meccanismo è semplice e agghiacciante: si costruisce un nemico, lo si usa per terrorizzare la società, per assecondarne gli umori più neri, ed infine ci si presenta con il volto rassicurante dei salvatori della patria che, per necessità di ordine e di sicurezza, sono costretti a sospendere e revocare i diritti sociali acquisiti con grandi fatiche dalle democrazie sorte nel ‘900.
La costruzione culturale del nemico, di questo ineffabile fantoccio, spauracchio e capro espiatorio sociale, prevede la messa in opera di alcune strategie consolidate da secoli. La prima delle quali è quella di definire, enfatizzare, inventare, se necessario, l’alterità.

Un’alterità culturale, innanzitutto, cui possibilmente si devono accompagnare adeguati tratti somatici. Il nemico è diverso per lingua, per abitudini, per come si veste, per quello che mangia, per quello che pensa, per la sua religione, per il colore della pelle. E ci odia. Deve essere, anzi, portatore di un odio così grande da spingerlo a fare spregio della sua stessa vita pur di poterci ferire e terrorizzare a morte. Non è un uomo, né una bestia: è una bomba che non risponde ad alcuna logica se non quella di un male così profondo da essere incomprensibile e, di fatto, inesistente.

Deve essere un nemico invisibile, per poter essere opportunamente sottratto allo sguardo critico, e al tempo stesso visibilissimo e immediatamente riconoscibile, per poterlo additare con facilità.

Il nemico poi deve scatenare un senso di angoscia e di insicurezza nel corpo sociale. E per far ciò deve essere fornito di un’altra qualità: deve essere prossimo a noi, inserito nella nostra comunità, deve essere il nostro vicino di casa. Solo così può generare alienazione, sospetto e paura anche nell’ambito del rapporti sociali più prossimi.

A questo punto la via per revocare i diritti è spianata.

In nome della difesa da un nemico così diverso, pericoloso e sopratutto prossimo, in nome di questa non meglio precisata “sicurezza”, paradossalmente spacciata per diritto (il “diritto alla sicurezza”), il potere azzera i diritti reali storicamente garantiti in democrazia.

Il diritto alla libertà di movimento viene all’uopo sospeso con la scusa di impedire l’infiltrazione di altri nemici nel corpo sociale.

Il diritto di esercitare il dissenso viene tacitato perché in tempi di grande pericolo rende un servizio al nemico, che ad ogni dubbio avanza di un passo. La parola d’ordine la conosciamo tutti: «Taci! Il nemico ti ascolta!». Ma se una società si chiude nel silenzio, invece di aprirsi al confronto e al dialogo permanente ed esaustivo, a risuonare sarà sempre e solo la voce retorica e rassicurante del potere.

Lo stato d’emergenza permanente e la sospensione dei diritti producono poi una serie di interessanti “effetti collaterali”, quali ad esempio il corollario della criminalizzazione del dissenso. E la conseguente necessità della sua repressione. Immediata, veloce, brutale, e che possibilmente valga da esempio per tutti. Il messaggio implicito è che non vale la pena di alzare la voce: c’è troppo da perdere.

E il nemico? Che fine ha fatto il nemico? Il terrorista, l’inviato di Bin Laden, il kamikaze, il fedelissimo di Saddam Hussein, la cellula latente di cui parlava l’informativa del ministro? Eccolo lì. Bombardato in patria, nemico in terra straniera è divenuto persino il nemico di sé stesso. Nel frattempo si è fatto veramente esplodere: vittima tra le vittime è arrivato a recitare il ruolo che altri hanno scritto per lui, fino all’osceno epilogo.

Il suo essere così irriducibilmente diverso lo condanna alla miseria, al nomadismo dell’identità. Anche per lui, se vuole sperare in un’esile possibilità di riscatto, non rimane che l’abisso dell’oblio di sé. Quell’oblio che partorisce e partorirà sempre tutti gli odî di tutto il mondo.

Ed allora una domanda sorge spontanea: in questa ridda di diritti garantiti, conquistati, naturali, negati, sottratti, stuprati, mistificati.

In questo marasma di diritti che si sovrappongono, si scontrano, si fondano o si delegittimano reciprocamente.

Nell’era globale dove l’unico diritto che sembra essere sempre e comunque riconosciuto è il diritto del più forte a negare i diritti dei più deboli che fine ha fatto il diritto di reagire?


(1) Ben Okri, La via della fame, 2000, Milano, Bompiani.
(2) Idem.
(3) Idem.

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