venerdì 2 gennaio 2009

Contaminazioni e conflitti nel territorio.

L'ibridazione culturale è la capacità che le diverse culture che coesistono su un medesimo territorio hanno di percorrere assieme il loro cammino nella contaminazione e non nel conflitto, se non nella misura in cui in ogni cultura sussistono dei conflitti.

I presupposti di tale dinamica positiva, solidale, inclusiva risiedono tanto nella volontà delle parti, quanto nella capacità dei territori di sostenere il carico antropico, vale a dire la popolazione residente, e di poter offrire risorse secondo sostenibilità, e quindi in maniera rinnovabile e pulita. Si tratta di quei territori, in sintesi, nei quali la qualità della vita è una priorità condivisa dalla gente, che si riflette in politiche territoriali responsabili, volte alla tutela dei beni naturali e delle risorse, acqua in primis.

Cosa avviene in simili contesti? Cosa avviene riguardo i rapporti fra le diverse culture dei territori: quelle locali, tradizionali e quelle portate dai migranti, figlie esse stesse assai spesso, del melting pot europeo e mediterraneo, che è la cifra più nobile e ricca di comunità umane che la miseria, la guerra e la disperazione hanno letteralmente sparso per il mondo?

Avviene che, nel rispetto e nella considerazione delle reciproche differenze, le comunità prosperano. Ma non solo: storie, lingue e tradizioni diverse cominciano ad incontrarsi a sovrapporsi ed a riconoscere reciprocamente quel tratto di comune umanità che appartiene ad ogni gente, popolo o comunità. Che scelgano o non scelgano consapevolmente la via della nascita di una nuova cultura locale e territoriale, frutto dell'incontro fra le due, poco importa. In capo a poche generazioni (se la gente lo vorrà) avremo un popolo, una lingua, un patrimonio ancora più ricco di storie e tradizioni.

È successo innumerevoli volte nella storia d'Europa e del Mediterraneo: in questo senso le nostre terre sono "globali" sin dalla Preistoria. Ed è successo nonostante la miseria, la fame, le carestie, le guerre e le crociate politiche e religiose delle elites che, di volta in volta, hanno detenuto il potere gerarchico. Tutto ciò ci parla di un'umanità sana, generosa e solidale.

Ma gli incubi metropolitani della città globale, partoriscono un'idea della politica autoritaria ed incestuosa, per la quale il territorio non è la mappa reale, storica, concreta delle persone, dei viventi, delle terre, ma un disegno astratto e tragicamente piatto. Un tabellone sul quale disegnare ogni sorta di caotico delirio, troppo spesso frutto di un connubio inestricabile di interessi economici, politiche territoriali e speculazioni di varia natura. Un inceneritore qui, là un quartiere alveare, là una centrale elettrica a gas e lì una bella discarica, a coronamento dell'opera.

In questi incubi le persone sono poco più che pedine, e le comunità seguono la stessa sorte. In territori difficili e sofferenti, i rapporti fra comunità locali e comunità migranti si fanno difficili e sofferenti. Si innesca uno stato di competizione permanente: per l'accesso agli spazi abitativi e sociali, alle risorse, al lavoro, alla rappresentanza politica. Più il territorio si degrada e si dissecca, più la qualità della vita degenera, più il conflitto si fa aspro.

Conflitto che comincia a tingersi, allora, di ipotesi xenofobe e razziste. Volge in diritto di prelazione il dato fattuale della preesistenza sul territorio. Costruisce la sua lingua, la sua cultura i suoi costumi secondo modalità sempre più distintive, che non fanno altro che scavare un solco ancora più profondo di incomprensione. A tutto ciò non è estranea la qualità delle politiche territoriali. Politiche che possono e devono essere rispettose dei territori e delle prerogative delle genti che le abitano. Politiche che puntino alla promozione dei territori abbandonando recisamente l'ipotesi industriale, che dalla gestione dei beni culturali, ambientali, archeologici e storico/antropologici, partano per l'avvio di una nuova modalità di accesso al lavoro.

Nuova perché centrata sul territorio e non più su di un pendolarismo che, oltre ad intasare drammaticamente le nostre arterie viarie verso Roma, sta assumendo sempre più i tratti di un nomadismo coatto che rischia di trasformare i nostri comuni in quartieri dormitorio della Capitale. Ma nuova anche perché si esercita nella difesa e conservazione del territorio e non nel suo sfruttamento massivo che non può avere altri esiti che il collasso.

Questo processo ha, inoltre, un positivo risvolto economico: le economie territoriali sono agganciate saldamente ad un dato produttivo reale (che sia di carattere agricolo o legato alla filiera turistico/culturale). Tanto più che, a fronte della crisi globale del sistema di finanza astratta, ultraliberista, non solo il valore delle produzioni reali tiene, ma anche i cicli turistici si restringono, favorendo mete locali, più facili ed economiche da raggiungere.

Questa nuova economia, nei Castelli Romani, è ancora oggi possibile, pur nella consapevolezza che alcuni dei danni perpetrati in questi anni sul territorio ci hanno segnato in maniera profonda ed irreversibile. Abbiamo un patrimonio archeologico imponente, nei nostri comuni ci sono testimonianze di tutti gli evi passati: dal Medioevo al Barocco. Abbiamo un Parco Regionale che, sebbene governi un'area con un carico urbano considerevole e diffuso, può rappresentare un livello di governo territoriale ottimale: superordinato rispetto i singoli Comuni, ma con ambito di intervento esattamente a dimensione di territorio.

Questa terra potremmo donarla ai nostri figli ed ai figli delle nuove comunità migranti, col lascito generazionale e politico di fare altrettanto con chi verrà.

Cittadini o sudditi: la scelta, come sempre, sta a noi...

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